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Straining: oneri probatori a carico del lavoratore.

Corte di Cassazione, sentenza 24883 del 2019.

La Corte di Appello di Milano respingeva il ricorso di una lavoratrice inteso all'accertamento delle condotte di mobbing e/o straining e di demansionamento asseritamente poste in essere dalla società datrice di lavoro nei suoi confronti ed al risarcimento dei danni patiti, patrimoniali e non.

La Corte di Appello, con riferimento al mancato risarcimento del danno conseguente a presunta condotta di mobbing, rilevava che l'omesso riconoscimento del superiore livello di inquadramento rivendicato non poteva essere considerato una condotta di tipo vessatorio e/o persecutorio e che sul punto le deduzioni erano generiche; non erano, poi, dirimenti le conclusioni cui erano pervenuti i medici ai quali si era rivolta la lavoratrice, mancando, peraltro, nelle relazioni dagli stessi redatte, l'indicazione della percentuale del danno biologico, sia permanente che temporaneo, sia quella del danno morale, ed essendo stato esiguo il periodo di dedotto mobbing.

Anche la Corte di Cassazione ha respinto il successivo ricorso dell’interessata.

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica.

Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità; ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

Ai sensi dell'articolo 2087 del codice civile, norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative stressogene (straining).

Il giudice, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno.

Nel caso affrontato, tuttavia, è stata ritenuta carente proprio una compiuta deduzione di circostanze rilevanti anche ai più limitati fini della integrazione della condotta di straining.

Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra.

Nell’occasione, inoltre, si è palesata dirimente l'esiguità del periodo utile a verificare la realizzazione delle condotte denunziate come mobbizzanti o rilevanti ai fini dello straining.

09 ottobre 2019

 

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