Responsabilità del datore di lavoro per il danno alla salute arrecato al dipendente oberato da un eccessivo carico di lavoro
Corte di Cassazione sentenza n. 9945 del 2014.
Con ricorso al Tribunale di Roma, una donna agiva, in proprio e nella qualità di esercente la potestà sul figlio minore, per ottenere la condanna del datore di lavoro, quale al risarcimento dei danni patrimoniali e morali derivanti dal decesso del marito, avvenuto per infarto.
La donna lamentava che il coniuge, svolgendo mansioni di quadro, si era trovato ad operare in condizioni di straordinario aggravio fisico: l’attività lavorativa si era intensificata fino a raggiungere ritmi insostenibili; l’impegno lavorativo era stato continuativo secondo una media di circa undici ore giornaliere e aveva comportato il protrarsi dell’attività a casa e fino a tarda sera; gli svariati e complessi progetti erano stati affidati senza affiancamento di collaboratori.
La Corte di Appello di Roma, riformando la pronuncia del Tribunale, condannava il datore di lavoro al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni, della somma di Euro 434.137,00 in favore della donna e della somma di Euro 425.412,00 in favore del figlio.
La ricostruzione della donna era risultata comprovata in giudizio e, secondo conclusioni del Consulente medico-legale l’infarto era correlabile, in via concausale, con indice di probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative.
La Corte di Cassazione, confermando la sentenza della Corte di Appello, ha asserito che la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico al datore di lavoro, il quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l’assenza di doglianze mosse dai dipendenti o, addirittura, sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengono in concreto svolte; deve infatti presumersi la conoscenza, in capo all’azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne.
Il dipendente infortunato, per evadere il proprio lavoro, era costretto a conformare i propri ritmi di lavoro all’esigenza di realizzare gli obiettivi nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli. L’oggettiva gravosità e l’esorbitanza dai limiti della normale tollerabilità non era in alcun modo riconducibile a iniziative volontarie dello stesso di addossarsi compiti non richiesti o di svolgere gli incarichi con modalità non coerenti con la natura e l’oggetto degli stessi.
E' imposto all’imprenditore di adottare tutte le misure che si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori. Incombe, però, al lavoratore che accusi di avere subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza dello stesso, la nocività dell’ambiente o delle condizioni di lavoro ed il nesso tra l’uno e l’altro.
La Corte di Cassazione ha ritenuta priva di fondamento l’affermazione delle difesa del datore di lavoro secondo cui, se il ritmo di lavoro era elevato, ciò dipendeva dalla attitudine del dipendente a lavorare con grande impegno e dedizione. Gli effetti della condotta lavorativa, coerente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni e in ragione del soddisfacimento delle impegni, non integrano mai una colpa del lavoratore.
03/06/2014