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Pubblico impiego: risarcimento del danno per abuso di contratti a termine. Vittoria in Cassazione per lo Studio Legale Carozza.

Corte di Cassazione, ordinanza 10861 del 2020.

La Corte d'Appello di Napoli, accogliendo il gravame proposto avverso la sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, ha condannato il Comune di Dragoni al risarcimento del danno in favore di un impiegato comunale, assistito dall’avvocato Domenico Carozza, per illegittimo ricorso alla contrattazione a termine, nella misura di dieci mensilità della retribuzione.

La Corte di Appello riteneva l'illegittimità del secondo contratto a tempo determinato, stipulato il 28.11.2001, per mancanza di indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificassero l'assunzione a termine e liquidava il risarcimento sul presupposto del lungo periodo nel quale il dipendente era stato poi alle dipendenze del Comune, in virtù di ripetuti contratti a termine ed il breve lasso di tempo intercorso tra l'ultimo di essi ed il deposito del ricorso giudiziario.

Il Comune di Dragoni ha proposto ricorso per cassazione respinto dalla Suprema Corte.

La Corte di Appello, se ha preso le mosse dall'illegittimità del secondo contratto intercorso tra le parti, ha poi considerato il ripetersi per sei anni di rapporti a tempo determinato con il medesimo dipendente, così mostrando di avere sanzionato, con la pronuncia di condanna, non l'illegittimità del singolo contratto, ma il ricorso abusivo alla reiterazione di contratti a termine.

In materia di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’articolo 36 del decreto legislativo 165/2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE, sicché, mentre va escluso siccome incongruo il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’articolo 32 delle legge 183/2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come danno comunitario, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto.

La sentenza di appello ha fatto leva, per la determinazione della misura risarcitoria, sul lungo periodo (sei anni) nel corso del quale si sono reiterati i contratti a termine (facendo dunque applicazione del criterio del comportamento delle parti, con riferimento alla complessiva dei rapporti che è palesemente espressione della gravità dell'accaduto), salvo poi, evidentemente al fine di non addivenire al massimo edittale, valorizzare anche il breve periodo intercorso tra la cessazione dell'ultimo contratto e il deposito del ricorso giudiziario.

La determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell'indennità prevista dall’articolo 32 delle legge 183/2010, che richiama i criteri indicati dall’articolo 8 della legge 604/1966, spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria. L'incentrarsi della motivazione solo su uno degli elementi da considerare non significhi attribuzione di irrilevanza agli altri, ma faccia più semplicemente presumere che, nell'economia del giudizio di merito, la gravità del parametro considerato (qui, la notevole durata complessiva dei successivi contratti a termine) sia stata ritenuta prevalente ed assorbente rispetto ad ogni diverso aspetto.

2 luglio 2020

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