Pubblico Impiego: ripetizione di somme non dovute.
Corte di Cassazione, sentenza 4323 del 2017.
La Corte di Appello di Torino rigettava l'appello di una lavoratrice nei confronti del Ministero dell'economia. La dipendente aveva chiesto l'annullamento del provvedimento con cui era stato comunicato a suo carico un indebito di Euro 33.684,25 e si invitava la stessa a restituire la somma.
L'interessata aveva insegnato come docente di ruolo. Aveva subito un'operazione chirurgica per carcinoma alla mammella, ed era poi stata in malattia. La docente era stata dichiarata inidonea alle mansioni proprie della qualifica e ricollocabile in mansioni amministrative e in conseguenza aveva risolto il rapporto di impiego per inidoneità fisica. Aveva ottenuto la liquidazione del trattamento di fine rapporto e poi aveva ricevuto la richiesta di restituzione.
La Corte d'Appello escludeva la buona fede della dipendente, in ragione della consapevolezza di avere continuato a percepire il normale stipendio nonostante la stessa si trovasse in aspettativa, situazione in ordine alla quale la contrattazione collettiva prevede la corresponsione di indennità ridotta rispetto alla retribuzione. Dai documenti sulla capacità reddituale e patrimoniale, in particolare con riguardo alla titolarità di tre immobili, non era dato concludere per la sussistenza di una compromissione irreparabile a fronte di un esborso rateizzato.
Il decorso del tempo da solo, attesa anche la disciplina della prescrizione decennale che si applica all'istituto dell'indebito, veniva ritenuto rilevante ai fini del legittimo affidamento.
L'interessata proponeva ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte ha inquadrato la fattispecie come indebito retributivo ai sensi dell'articolo 2033 del codice civile, disposizione che non disciplina l'indebito pensionistico.
Per i dipendenti pubblici, solo la disciplina dell'indebito pensionistico va rinvenuta nel DPR 1092/1973 che pone norme differenti dall'indebito civilistico.
A seconda che si abbia riguardo all'indebito retributivo o all'indebito pensionistico, sussiste l'applicazione di due diverse discipline.
L'articolo 2033 del codice civile stabilisce che chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda.
In materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell'indebito proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora, risulti accertato che l'erogazione è avvenuta sine titulo, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ai sensi dell'articolo 2033 del codice civile per la buona fede dell'accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi.
La Corte dei Conti, in diverse pronunce, ha affermato che l'amministrazione ha il diritto-dovere (rectius: il potere) di ripetere l'indebito anche dopo la scadenza dei termini del procedimento. Tale potere può essere attenuato solo dalla situazione di legittimo affidamento del privato consolidatasi attraverso un lungo decorso del tempo, e cioè, la plausibile convinzione, da parte del pensionato, di avere titolo ad un vantaggio conseguito in un arco di tempo tale da persuadere il beneficiario stesso della sua stabilità. Tale legittimo affidamento, caratterizzato dalla buona fede, secondo la giurisprudenza contabile, consta di tre elementi costitutivi, e precisamente: un elemento oggettivo, consistente in un vantaggio del privato identificabile in maniera chiara ed univoca; un elemento soggettivo, idoneo a rendere l'affidamento legittimo, nel senso che il privato deve mostrare una plausibile convinzione di avere titolo all'utilità ottenuta; un elemento temporale, che consente all'affidamento legittimo di diventare pieno e di consolidarsi.
Nella giurisprudenza amministrativa, formatasi sui rapporti di lavoro di impiego pubblico non contrattualizzato, accanto ad un orientamento secondo cui il recupero ha carattere di doverosità e costituisce esercizio di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate, mentre le situazioni di affidamento e di buona fede dei percipienti rileverebbero ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita del dipendente, si rinviene altro orientamento che ha affermato che i suddetti principi giurisprudenziali non possono essere applicati in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti, dovendosi aver riguardo alle connotazioni delle singole fattispecie, tenendo conto della natura degli importi di volta in volta richiesti in restituzione, delle cause dell'errore che aveva portato alla corresponsione delle somme in contestazione, del lasso di tempo trascorso tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, dell'entità delle somme corrisposte in riferimento alle correlative finalità.
La eventuale non ripetibilità dell'indebito in ogni caso non può connessa al solo decorso del tempo o alla sola buona fede, ma ad una pluralità di fattori che devono concorrere.
La Corte di Cassazione ha concluso, quindi, che correttamente nessun elemento ostativo nel caso affrontato era stato individuato perché non si procedesse al recupero dell'indebito contro la dipendente ed ha rigetto il ricorso di quest'ultima.
20 aprile 2017