Pubblico impiego: non si può riconoscere un livello superiore con transazione.
Corte di Cassazione, sentenza 24216 del 2017.
La Corte di Appello di Torino respingeva l’appello proposto da una Azienda Pubblica avverso la sentenza del Tribunale di Aosta che aveva ritenuto illegittimo l’atto di annullamento in autotutela della transazione sottoscritta dinanzi alla Direzione Regionale del Lavoro.
Con la transazione l’Azienda Pubblica si era impegnata a riconoscere in favore di un dipendente l’inquadramento in una categoria superiore.
Secondo la Corte di Appello, non poteva la Pubblica Amministrazione procedere all’unilaterale annullamento del verbale di conciliazione sottoscritto nel rispetto delle procedure e delle garanzie previste dal codice di procedura civile, perché nel sistema dell’impiego pubblico contrattualizzato il datore di lavoro pubblico agisce con i poteri e le capacità del privato e, quindi, non può esercitare l’autotutela che presuppone un potere amministrativo autoritativo.
L’Azienda Pubblica proponeva ricorso per Cassazione.
La natura privatistica degli atti di gestione dei rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs.165/2001 non consente alle Pubbliche Amministrazioni di esercitare il potere di autotutela, che presuppone la natura amministrativa del provvedimento e l’esercizio di poteri autoritativi.
Qualora l’atto adottato risulti, però, in contrasto con norma imperativa, l’ente pubblico, che è tenuto a conformare la propria condotta alla legge, può sottrarsi unilateralmente all’adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell’atto illegittimo ed in tal caso, la condotta della Pubblica Amministrazione è equiparabile a quella del contraente che non osservi il contratto stipulato, ritenendolo inefficace perché affetto da nullità.
Qualora il dipendente intenda reagire all’atto unilaterale adottato dalla Pubblica Amministrazione, deve fare valere in giudizio il diritto soggettivo che da quell’atto è stato ingiustamente mortificato e non limitarsi a sostenere l’illegittimo esercizio di poteri di autotutela, perché il giudice ordinario è giudice non dell’atto ma del rapporto e dei diritti/doveri che dallo stesso scaturiscono.
Detti principi operano anche nell’ipotesi di obbligazioni assunte dall’amministrazione all’esito del tentativo di conciliazione.
La inoppugnabilità prevista dall’ultimo comma dell’articolo 2113 del codice civile, non si riferisce alle azioni generali di nullità e di annullabilità dell’atto, perché l’intervento dell’ufficio provinciale del lavoro è finalizzato a sottrarre il lavoratore alla condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, che potrebbe indurre a sottoscrivere transazioni e rinunce frutto della prevaricazione esercitata dal datore. Rimangono, invece, esperibili i mezzi ordinari di impugnazione concessi ai contraenti per far valere i vizi che possono inficiare il regolamento contrattuale, ossia le cause di nullità o di annullabilità, poiché rispetto a tali azioni l’intervento dell’ufficio provinciale del lavoro non può esplicare alcuna efficacia sanante o impeditiva.
In relazione alle conciliazioni stipulate, può essere senz’altro fatta valere la nullità qualora in sede conciliativa l’amministrazione abbia, in violazione di norme inderogabili di legge, riconosciuto al dipendente un trattamento giuridico ed economico allo stesso non dovuto.
Secondo la Suprema Corte, sarebbe stato corretto il comportamento della Azienda Pubblica che, a giustificazione dell’iniziativa unilaterale assunta, aveva fatto valere proprio la nullità della conciliazione, per contrasto con la disciplina inderogabile dell’articolo 52 del d.lgs. 165/2001.
La disciplina delle mansioni nell’impiego pubblico contrattualizzato differisce sensibilmente da quella civilistica, perché vengono in rilievo interessi di carattere generale, quali sono quelli dell’efficienza degli uffici pubblici, del pubblico concorso, del contenimento e della necessaria predeterminazione della spesa, che impongono al datore di lavoro pubblico, fatta eccezione per i casi espressamente previsti dalla legge, di assegnare al dipendente solo compiti che siano corrispondenti alla qualifica di assunzione o a quella legittimamente acquisita per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive. In detti rapporti, quindi, l’esercizio di mansioni superiori in nessun caso fa sorgere il diritto alla definitiva acquisizione della diversa qualifica, tanto che, ove l’assegnazione venga disposta dal datore senza che ricorrano i presupposti previsti dalla legge, la stessa è affetta da nullità e il dipendente può solo rivendicare il trattamento retributivo corrispondente alla qualità e quantità del lavoro prestato, limitatamente al periodo in cui la prestazione è stata eseguita.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Azienda Pubblica ed ha formulato il seguente principio di diritto: nell’impiego pubblico contrattualizzato il datore di lavoro, pur non potendo esercitare poteri autoritativi, è tenuto ad assicurare il rispetto della legge e, conseguentemente, non può dare esecuzione ad atti nulli né assumere in sede conciliativa obbligazioni che contrastino con la disciplina del rapporto dettata dal legislatore e dalla contrattazione collettiva. Il divieto imposto al datore di lavoro pubblico di attribuire trattamenti giuridici ed economici diversi da quelli previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, anche se di miglior favore, impedisce sia il riconoscimento di inquadramenti diversi da quelli previsti dal CCNL di comparto sia l’attribuzione della qualifica superiore in conseguenza dello svolgimento di fatto delle mansioni.
02 gennaio 2018