Pubblico impiego: la funzione è sufficiente per il diritto all’indennità di posizione organizzativa.
Corte di Cassazione, sentenza 8141 del 2018.
La Corte di Appello di Venezia escludeva il diritto di un dipendente dell’INPS di rivendicare l’indennità di posizione organizzativa: evidenziava che il diritto presuppone il conferimento dell’incarico di posizione e, quindi, non sorge per il solo fatto di avere svolto mansioni di responsabile di team di sviluppo professionale.
Della controversia veniva investita la Corte di Cassazione.
La disciplina delle posizioni organizzative trova fondamento nel d.lgs. 29/1993 con il quale il legislatore aveva previsto che per le figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto.
La disposizione è stata integralmente trasfusa nel d.lgs. 165/2001. Sulla stessa il legislatore è intervenuto con il d.lgs. 150/2009 prevedendo che nell’ambito dei comparti di contrattazione possono essere costituite apposite sezioni contrattuali per specifiche professionalità.
Condizione imprescindibile perché il diritto possa venire ad esistenza è l’istituzione delle posizioni stesse, da effettuare all’esito delle procedure previste dalle parti collettive; dall’altro, quanto alla natura dell’istituto, la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, nè un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell’incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione, nell’ambito della classificazione del personale di ciascun comparto, è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva.
La stessa natura della posizione organizzativa, connessa allo svolgimento di compiti di elevata responsabilità, non consente di sostenere che, essendo il formale conferimento dell’incarico condizione imprescindibile per il riconoscimento dell’indennità, quest’ultima, in caso di assegnazione in via di mero fatto a mansioni superiori, non potrebbe essere apprezzata ai fini della quantificazione del differenziale di cui all’articolo 52 del d.lgs. 165/2001.
Ove il dipendente venga chiamato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall’ente, e ne assuma tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è comunque diretto a commisurare l’entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa.
La fattispecie non è dissimile da quella nella quale viene in rilievo l’assegnazione di fatto a mansioni dirigenziali, in relazione alla quale si è ritenuta spettante la retribuzione di posizione, anche in assenza di atti formali, in quanto collegata al livello di responsabilità conseguente alla natura dell’incarico, all’impegno richiesto, al grado di rilevanza, alla collocazione istituzionale dell’ufficio, dati, questi, che non possono non rilevare ai fini del giudizio di proporzionalità di cui all’articolo 36 della Costituzione, del quale l’articolo 52 del d.lgs. 165/2001 costituisce attuazione.
La portata applicativa del principio non può essere limitata al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo.
L’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della qualità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione formale a mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica amministrazione, l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento che porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore ai sensi dell’articolo 2126 del codice civile.
La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l’applicabilità anche al pubblico impiego dell’articolo 36 della Costituzione nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell’articolo 2126 del codice civile, l’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza.
Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore devono essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o, infine, qualora la prestazione sia stata resa in violazione di principi basilari pubblicistici dell’ordinamento.
La posizione organizzativa risponde all’esigenza di tener conto in modo adeguato della differenziazione delle attività.
Nell’ambito dell’organizzazione dell’ente, infatti, determinate funzioni, pur esprimendo la medesima professionalità che caratterizza l’area di inquadramento più elevata, rivestono un ruolo strategico e di alta responsabilità, che giustifica, come per il rapporto di natura dirigenziale, la sottoposizione alla logica del risultato, l’assoggettamento a valutazione e, correlativamente, il riconoscimento di un compenso aggiuntivo.
La posizione organizzativa, da non confondere con il profilo professionale, descrive, dunque, una funzione alla quale si correlano compiti predeterminati dall’ente, sicché, una volta che la stessa sia stata istituita e si accerti che il dipendente abbia svolto con pienezza di poteri le mansioni connesse all’incarico, assumendone la relativa responsabilità, non è corretto valorizzare quei compiti ai soli fini della comparazione fra i livelli di inquadramento (quello posseduto dal dipendente e quello sotteso alla posizione organizzativa), riconoscendo l’esercizio di fatto delle mansioni superiori, ma escludendo al tempo stesso il conferimento, sempre in via di fatto, della posizione in discussione.
In altri termini, ove il giudizio venga compiuto comparando le mansioni di fatto accertate, non con la declaratoria generale dell’area e dei livelli, bensì con i compiti e le responsabilità della posizione organizzativa istituita dall’ente, l’esito della comparazione, se favorevole per il lavoratore, dovrà portare a riconoscere il diritto del lavoratore a percepire il differenziale economico che tenga conto, oltre che del trattamento economico previsto per la superiore area di inquadramento sottesa alla posizione, anche dell’indennità stabilita dalle parti collettive in relazione all’espletamento dello specifico incarico.
La Corte di Cassazione ha, quindi, rilevato che nel caso affrontato la Corte di Appello si è discostata dai principi di diritto perché, a fronte dell’allegazione del lavoratore di avere svolto di fatto la posizione organizzativa di responsabile team sviluppo professionale, istituita dall‘INPS e per la quale era stata bandita apposita selezione, da un lato ha ritenuto provato, sulla base della documentazione prodotta e della non contestazione dell’INPS, lo svolgimento delle mansioni caratterizzanti l’incarico, ma ha escluso il diritto a percepire la relativa indennità.
25 maggio 2018