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Pubblico impiego: indennità sostitutiva delle ferie per la lavoratrice in congedo di maternità che si è dimessa.

Corte di Cassazione, sentenza 19330 del 2022.

La Corte di Appello di Cagliari rigettava la domanda di una dipendente della Asl di condanna al pagamento della indennità sostitutiva per ferie non godute, delle quali non aveva potuto fruire perché in congedo obbligatorio per maternità sino alla risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni.

La Corte di Appello osservava che il rigetto della domanda della lavoratrice trovava fondamento nell'applicazione nell’articolo 5 del Decreto Legge 95/2012 che impedisce la monetizzazione delle ferie non godute.

La Suprema Corte ha, invece, accolto il ricorso promosso dalla lavoratrice.

L’articolo 5 comma 8 del Decreto Legge prevede che le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.

La Corte costituzionale nella sentenza 96/2016 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità della norma. Il Giudice ha precisato il legislatore correla il divieto di monetizzazione a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che sempre consentono di pianificare per tempo la fruizione del periodo di riposo e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore e quelle del prestatore. Lo scopo della normativa è, infatti, quello di reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione del periodo di ferie non goduto, contrastandone gli abusi, e di riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle stesse, nell'alveo di una razionale programmazione, con lo scopo di favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto, ma senza arrecare alcun pregiudizio al lavoratore incolpevole.

Sia la prassi amministrativa che le decisioni della magistratura contabile escludono dall'ambito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non dipendono dalla volontà del lavoratore e tutta la giurisprudenza di legittimità riconosce sempre al lavoratore il diritto ad un'indennità per le ferie non godute, quando il mancato godimento dipende da causa a lui non imputabile, e ciò anche quando difetti un'esplicita previsione negoziale in tal senso, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di monetizzazione.

La disciplina, dunque, non pregiudica l'inderogabile diritto alle ferie, garantito da radicati principi espressi dalla Carta fondamentale nonché dalle fonti internazionali ed Europee.

Ne' la normativa sopprime la tutela risarcitoria civilistica del danno da mancato godimento incolpevole delle ferie.

Quanto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea emerge che l’articolo 7 della  direttiva 2003/88, in particolare, riconosce al lavoratore il diritto a un'indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti e che tale norma deve essere interpretata nel senso che essa osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruirle prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l'intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto. L’articolo 7 della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite espressamente accordato da tale direttiva, che comprenda finanche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, però, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto medesimo.

Nel caso affrontato, si è verificata la sovrapposizione di condizioni di segno opposto.

Da un lato, vi è stata la fruizione da parte della lavoratrice del congedo obbligatorio per maternità, fino alla data della cessazione del rapporto lavoro, ovvero una delle ipotesi che secondo giurisprudenza della CGUE fa sì che l’articolo 7 della direttiva 2003/88  sia ostativa a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruirle. Ne' può porsi in dubbio che l'astensione obbligatoria per maternità sia riconducibile a tale alveo, essendo sostanzialmente sovrapponibile, ai fini che qui interessano, ad una condizione di malattia o comunque ad una ipotesi di impossibilità di fruizione indipendente dalla volontà del prestatore.

Per altro verso, è pure vero che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, la monetizzazione delle ferie, nella specie, sarebbe preclusa dalla scelta operata dal lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro con le dimissioni, come peraltro ritenuto dalla Corte di Appello.

Nell'ipotesi in esame, invece, va valorizzata, in relazione al periodo precedente le dimissioni, l'impossibilità per il datore di concedere le ferie, ma soprattutto per la lavoratrice di fruirne, essendo in astensione obbligatoria per maternità.

Questo rilievo deve avere la priorità, sia sul piano del bilanciamento degli interessi che su quello cronologico, rispetto alla scelta della lavoratrice di dimettersi.

La lavoratrice non avrebbe in alcun modo potuto fruire delle ferie nel periodo di astensione obbligatoria e ciò rende neutra la circostanza che ella abbia poi scelto di dimettersi, come era suo diritto, per dar corso ad una nuova esperienza lavorativa.

Quindi, va riconosciuto il diritto all'indennità sostitutiva delle ferie anche nel caso esaminato, in cui l'impossibilità di fruizione delle stesse è stata determinata dal versare la lavoratrice nella situazione che (pre e post parto) impone l'astensione obbligatoria dal lavoro. Resta, invece, neutra nella peculiare situazione in esame la modalità di cessazione del rapporto, connessa alla scelta di dimettersi.

20 ottobre 2022

 

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