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Per i dirigenti il criterio di giustificatezza del licenziamento si valuta differentemente rispetto ai lavoratori subordinati.

Corte di Cassazione, sentenza 16380 del 2017.

La Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, accertava la legittimità del licenziamento intimato ad un dirigente.

Della controversia veniva investita la Corte di Cassazione.

Le disputa aveva ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro di un dirigente in ragione di una ristrutturazione aziendale e della conseguente soppressione del posto di lavoro con ridistribuzione dei compiti tra gli altri dirigenti in servizio e, in via generale, della riconducibilità o meno di tale recesso nell'ambito della nozione di giustificatezza che esime il datore di lavoro dal corrispondere al lavoratore l'indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva di settore.

Il dirigente che aveva impugnato il licenziamento sosteneva che in concreto non sussistevano le ragioni organizzative poste a fondamento del recesso e che, piuttosto, solo per effetto del licenziamento si era proceduto alla riorganizzazione. Il medesimo, inoltre, evidenziava che se riorganizzazione vi era stata questa si era conclusa ben prima del licenziamento che era stato quindi intimato con violazione dei doveri di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto e comunque in assenza di una giustificazione.

La Corte di Cassazione, con più sentenze, ha tracciato i confini entro i quali valutare in concreto l'esistenza di un giusto motivo di risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente ed ha riconosciuto che tale indagine può riguardare sia la persistenza del vincolo fiduciario sia la necessità dell'apporto lavorativo. La verifica della sussistenza del canone della giustificatezza del recesso, va compiuta nell'ambito di una valutazione che escluda l'arbitrarietà del licenziamento ed attribuisca rilevanza al principio della correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso del datore di lavoro. In sostanza, ai fini del riconoscimento del diritto a percepire l'indennità supplementare, il recesso deve risultare privo di giustificatezza da intendersi sia sotto il profilo della mancanza di ragioni soggettive ascrivibili al dirigente, sia per non essere in concreto ravvisabili quelle ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale.

Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali dettate dalla legge 604/1966, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dalla legge 604/1966 e, dunque, non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 della Costituzione, che verrebbe radicalmente negata, ove si impedisse all'imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa.

Il licenziamento del dirigente è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie.

La Corte di Cassazione ha, quindi, ritenuto corretta la valutazione della Corte di Appello di Bologna in cui veniva dato conto che il ruolo svolto dal dirigente era stato soppresso e che vi era stato un accorpamento delle figure di produzione e qualità con assegnazione ai tre direttori di stabilimento delle funzioni in precedenza assegnate al dirigente interessato. Inoltre era stato accertato che la soppressione della struttura organizzativa ritenuta antieconomica aveva comportato un risparmio di costi aderente all'esigenza di ottimizzare le risorse del settore assicurazione della qualità.

La Corte di Cassazione ha anche ricordato che non vi è un obbligo di repechage in ragione del regime di liberare cedibilità che assiste il rapporto di lavoro dei dirigenti: non era, quindi, ravvisabile una violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella condotta datoriale che, nell'esercizio della sua libera scelta imprenditoriale, aveva proceduto ad un ridimensionamento dell'organizzazione aziendale e, in esito alla ristrutturazione, non aveva ritenuto di collocare il dirigente in posizioni lavorative diverse.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del dirigente condannandolo alla rifusione di oltre 5000 euro di spese legali.

 

12 settembre 2017

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