Lo straining, quale situazione di stresso forzato sul posto di lavoro, può dar diritto al risarcimento del danno.
Corte di Cassazione, sentenza 3977 del 2018.
Una dipendente scolastica, dichiarata inidonea all’insegnamento e successivamente assegnata alla segreteria della scuola, era stata vittima di atteggiamenti a carattere pressoché vessatorio da parte del dirigente scolastico, in seguito ad una situazione di tensione tra i due, sorta in seguito ai rilievi mossi dalla stessa in merito alla necessità di implementare il personale per lo svolgimento dei servizi amministrativi. Il preside, in particolare, aveva provveduto dapprima a sottrarre alla dipendente taluni strumenti di lavoro e ad affidarle mansioni di tipo didattico (nonostante la richiamata inidoneità della stessa), per poi privarla integralmente di qualsivoglia mansione e relegandola ad uno stato di inattività.
La Suprema Corte, nell’affermare che lo straining costituisce una forma attenuata di mobbing, ha sostenuto che alle condotte a tale nozione riconducibili può conseguire una condanna al risarcimento ai sensi dell’articolo 2087 del Codice civile, ove sia dimostrato un effettivo pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore. Trattasi di un’interpretazione della norma di tipo estensivo, finalizzata a garantire il rispetto costituzionalmente prescritto di beni essenziali e primari quali il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona. Invero, non dovrebbe intendersi la tutela antinfortunistica offerta dall’articolo 2087 del Codice civile in senso stretto, ben potendo, per converso, configurarsi in capo al datore un obbligo di garantire la sicurezza generale dell’ambiente di lavoro perché lo stesso è chiamato altresì ad impedire in toto che all’interno di tale ambiente si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona. Il datore di lavoro deve ritenersi chiamato a rispondere ogniqualvolta sia riscontrabile un comportamento quanto meno colposo cui può eziologicamente ricondursi l’evento dannoso.
Le azioni ostili cui era risultata vittima la dipendente, tra cui la privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, l’assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute e la riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità, per quanto sprovviste del carattere sistematico e reiterato idoneo a configurare la fattispecie di mobbing, potevano senz’altro integrare lo straining e giustificare la condanna operata dalla Corte di Appello nei confronti del Ministero dell’Istruzione al risarcimento del danno cagionato alla lavoratrice e quantificato in oltre quindicimila euro.
24 giugno 2021