Le dichiarazioni false legittimano sempre il licenziamento disciplinare del dipendente pubblico.
Cassazione, sentenza 11636 del 2016.
Un'insegnante con contratto a tempo determinato aveva impugnato il licenziamento senza preavviso irrogatole con decreto del Direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale.
Il licenziamento era stato irrogato per aver posto in essere falsità documentali e dichiarative ai fini dell'instaurazione del rapporto di lavoro; in particolare, oggetto della contestazione disciplinare era stata la falsa dichiarazione di aver conseguito il titolo finale ad un corso di perfezionamento e aggiornamento professionale in dinamiche relazionali e metodologiche didattiche nei gruppi di apprendimento, titolo il cui conseguimento, tuttavia, di per sé non costituiva requisito per il conseguimento dell'incarico.
La lavoratrice lamentava che la gravità della condotta era stata valutata senza dare rilievo al falso innocuo.
La Corte di Cassazione ha, invece, ritenuto corretto dichiarare il licenziamento proporzionato al fatto contestato che configurava giusta causa di recesso per applicazione dell'articolo 55 quater, lett. d, del D.Lgs. 165/ 2001, secondo il quale il licenziamento senza preavviso è irrogato nei casi di falsità dei documenti o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni in carriera.
Il comportamento del dipendete pubblico è, dunque, sanzionato indipendentemente dalla circostanza che la falsità abbia fatto conseguire il posto di lavoro, essendo sufficiente a integrare la fattispecie la condotta di avere prodotto la documentazione o la dichiarazione falsa, al fine o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro.
Tale interpretazione non palesa dubbi di legittimità costituzionale, nè può trovare applicazione il concetto penalistico di falso innocuo, in quanto la condotta di produrre documenti falsi ed eseguire false dichiarazioni è idonea in sè ad assumere caratteri tali da giustificare il licenziamento, indipendentemente dal fatto che sia integrato un delitto di falso.
La Cassazione ha, quindi, rigettato il ricorso della lavoratrice condannadola al pagamento delle spese di giudizio per oltre duemilacinquecento euro.
01 settembre 2016