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L'onere di provare la discriminazione subita, anche se alleggerito, rimane a carico del lavoratore e deve fondarsi su elementi seri, precis e concordanti.

Corte di Cassazione, sentenza n. 14206 del 2103

Una impiegata conveniva in giudizio un istituto di credito dolendosi di una mancata promozione. La lavoratrice asseriva che, pur in presenza di tutti i presupposti, il mancato avanzamento professionale era da considerarsi ingiusto e frutto di discriminazione sessuale.
L'articolo 15 della legge 300/1970 sanziona con la nullità qualsiasi patto o atto diretto a discriminare un lavoratore in base all'adesione ad una associazione sindacale.
La legge 903/1977 ha previsto il divieto di discriminazioni fondate sul sesso relativamente all’accesso al lavoro ed alla formazione professionale, il diritto alla parità retributiva e a criteri di classificazione comune, il divieto di discriminazione in materia di attribuzione delle qualifiche e delle mansioni e di progressione di carriera, la parità in materia di cessazione dal lavoro, le modalità di partecipazione delle donne al lavoro notturno ed divieto durante la gravidanza.
La legge 903/1977 ha aggiunto all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori il divieto di discriminazione per ragioni politiche, religiose, di sesso, razza e lingua.
La legge 125/1991 ha introdotto la distinzione tra discriminazione diretta ed indiretta (discriminazione diretta è una disposizione, criterio, prassi, atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole in situazione analoga; discriminazione indiretta si ha quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri mettono i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio).
Il decreto legislativo 216/2003 ha esteso la sanzione anche alle discriminazioni in base all’handicap, all’età, all’orientamento sessuale e alle convinzioni personali.
La tutela antidiscriminatoria può avvalersi di azioni ordinarie, l’una individuale e l’altra collettiva (o pubblica), e di due simmetriche procedure d’urgenza.
Nell’azione individuale è il singolo che si attiva per far valere la lesione di un proprio diritto.
L’azione individuale può condurre alla sanzione di nullità degli atti o patti discriminatori, all’ordine di rimozione degli effetti e di cessazione della condotta iniqua ed al risarcimento del danno.
La Corte di Cassazione ha sottolineato che, in base all'art. 40 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, alle direttive europee ed alla giurisprudenza comunitaria e nazionale, il lavoratore discriminato, che vuole ottenere il risarcimento del danno, deve fornire prove idonee a far presumere l’esistenza di atti o comportamenti discriminatori perpetrati dal datore di lavoro in ragione del sesso dei suoi dipendenti. A fronte di tali elementi spetta, invece, al datore di lavoro provare l’inesistenza della discriminazione. Tali prove possono anche essere dati statistici relativi alle assunzioni, alle retribuzioni, alle progressioni in carriera, ai licenziamenti di lavoratori e lavoratrici fatti in passato dall’azienda. Gli elementi necessari per raggiungere la prova della discriminazione devono essere comunque seri, precisi e concordanti.
La Corte di Cassazione, nel caso affrontato, ha ritenuto che lavoratrice avrebbe lamentato che la promozione le sarebbe stata negata per una discriminazione individuale subita che si inseriva in un quadro di discriminazione generale e diffusa in danno del personale femminile all'interno della azienda. La dipendente, però, non avrebbe offerto elementi con quelle caratteristiche di precisione, concordanza e di serietà richieste dall'ordinamento. La Corte di Cassazione ha, quindi, rigettato la pretesa della lavoratrice.

 

05/08/2013

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