Inattività forzata del lavoratore e responsabilità risarcitoria del datore. Vittoria in Corte di Appello per lo Studio Legale Carozza.
Corte di Appello di Napoli, sentenza 6731/2017.
Il Tribunale di Napoli aveva accolto il ricorso di un dipendente, assistito dallo Studio Legale Carozza, contro una rilevante società produttrice di missili e tecnologie per la difesa inteso ad ottenere il risarcimento del danno alla professionalità e del danno non patrimoniale subiti per effetto della inadempiente condotta del datore di lavoro. Il Tribunale aveva condannato la società a corrispondere a titolo di risarcimento del danno al lavoratore una somma pari al 25% delle mensilità di retribuzione dal marzo 1999 al luglio 2012 oltre ad euro 30.000,00 a titolo di danno non patrimoniale.
La società datrice di lavoro proponeva appello.
Con il ricorso di primo grado, era stata proposta una lunga e dettagliata descrizione dei compiti del lavoratore sin dalla sua assunzione. Egli aveva sempre svolto rilevanti compiti inerenti i servizi informatici, la contabilità e la gestione del personale, raggiungendo anche l’inquadramento nella categoria di quadro.
Ad un certo punto, tuttavia, il datore di lavoro lo aveva lasciato in condizione di inattività con conseguente perdita del patrimonio professionale acquisito e perdita di possibilità di crescita professionale oltre che con gravi danni alla salute ed alla vita di relazione. Il lavoratore era stato anche collocato in ufficio isolato senza svolgere alcuna attività, manifestando di conseguenza un grave disagio psichico. Il medesimo non fu coinvolto in alcuna iniziativa di miglioramento lavorativo e subì un danno da svilimento professionale derivante dalla sottrazione di ogni compito con forzata inoperosità.
La Corte di Appello ha rilevato che le testimonianze assunte in primo grado hanno confermato che il lavoratore era tenuto in uno stato di forzosa inoperosità e di isolamento, peraltro noti al personale dipendente. La comprovata inoperosità, non seguita da alcun provvedimento sanzionatorio, ha dimostrato che era intento del datore di lavoro quello di mantenere il dipendente in una condizione passiva, estromettendolo dalle dinamiche produttive aziendali.
La Corte di Appello ha ribadito la sussistenza della lesione al patrimonio professionale del lavoratore inteso come bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche funzionalizzato all’esplicazione dell’attività che è bene economicamente valutabile. Quanto alla liquidazione del danno non patrimoniale, l’inadempimento datoriale consistito nella forzata inoperosità imposta al lavoratore, può senza dubbio comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali.
Nel caso in esame, il lavoratore aveva subito uno svilimento della propria immagine professionale, un danno grave alla propria vita di relazione, la mortificazione della dignità professionale, la sofferenza determinata dalla frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione di carriera ed il pregiudizio all’immagine per la conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione.
La gravità di tali elementi è stata valutata come idonea ad incidere sulle abitudini del dipendente ed a stravolgere la sua stessa immagine.
La Corte di Appello ha, pertanto, rigettato l’appello proposto contro la sentenza di primo grado ed ha confermato la condanna contro il datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del dipendente.