Illegittima la pretesa di esibire informazioni inerenti procedimenti penali in corso ai fini dell’assunzione.
Corte di Cassazione, sentenza 19012 del 2018.
Con ricorso al Tribunale di Roma, una lavoratrice chiedeva la condanna di Poste Italiane ad immetterla in servizio con le mansioni di addetta al recapito.
L’interessata, già inserita nella graduatoria unica nazionale dei lavoratori precedentemente assunti con contratto a tempo determinato da Poste Italiane, sulla base dell'adesione della lavoratrice all'accordo sottoscritto tra la società e le Organizzazioni Sindacali, era stata convocata per la scelta della sede, ma non era stata assunta in servizio per essere risultato dalla certificazione della competente Procura un carico pendente.
Il Tribunale accoglieva il ricorso ritenendo illegittimo il rifiuto di procedere all'assunzione.
La decisione veniva confermata dalla Corte d'appello di Roma.
I giudici del gravame ritenevano che la disposizione del ccnl applicato prevedesse tra i documenti da presentare per l'assunzione solo il certificato penale di data non anteriore a tre mesi non anche quello dei carichi pendenti e che l'estensione della richiesta della società (che aveva poi determinato il diniego di assunzione) non potesse essere giustificata da alcun interesse dell'azienda a conoscere la storia personale della persona che si accingeva ad assumere stante, peraltro, la presunzione di non colpevolezza di cui all'articolo 27 della Costituzione.
Poste Italiane proponeva ricorso per cassazione.
Oggetto del vaglio di legittimità è stata, quindi, la richiesta aziendale di estendere i documenti previsti dal ccnl fino a ricomprendere tra questi anche il certificato dei carichi pendenti.
Secondo la Suprema Corte, nell’interpretazione del ccnl, si deve attribuire rilevanza innanzitutto al dato letterale secondo il quale tra i documenti da presentare ai fini dell'assunzione vi è il solo certificato penale di data non anteriore a tre mesi. La disposizione predetta è assolutamente chiara nella sua formulazione e già solo questa circostanza esclude la necessità del ricorso al meccanismo dell'interpretazione integrativa integrando già un limite logico ad una interpretazione estensiva.
Nè è possibile attribuire all'espressione certificato penale (che evoca il certificato di cui agli articoli 23 e 25 del Testo Unico sul casellario giudiziale di cui al D.P.R. 313/2012) un significato semantico suscettibile di plurime interpretazioni.
In ogni caso si tratta di una disposizione che, condizionando (sospensivamente) l'assunzione alla presenza di determinati requisiti debitamente documentati, non può formare oggetto di interpretazione estensiva perché ciò si risolverebbe nell'introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno inteso prevedere.
Ed infatti la richiesta del certificato penale integra un limite rispetto alla previsione di cui all'articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori, secondo cui è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore. Tale norma si giustifica con la rilevanza ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore della conoscenza di date informazioni relative all'esistenza di condanne penali passate in giudicato.
Tale limite, in assenza di espressa previsione contrattuale, non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso (oggetto del certificato, invece, previsto dall'articolo 27 del Testo Unico sul casellario giudiziale), ciò specie in considerazione del principio costituzionale della presunzione d'innocenza.
E’ corretto, pertanto, escludere la possibilità di ricomprendere tra i documenti da presentare ai fini dell'assunzione anche il certificato dei carichi pendenti evidenziando che il solo status di imputato (e cioè di soggetto che si sia venuto a trovare ad avere un procedimento penale pendente a suo carico) non è previsto nel medesimo ccnl quale motivo di giusta causa di licenziamento il che renderebbe incongrua una previsione che, invece, attribuisca rilevanza a tale status al momento dell'assunzione.
La Corte di Cassazione ha, pertanto, rigettato il ricorso della società.
24 gennaio 2019