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Il patto di non concorrenza: requisiti di validità.

Corte di Cassazione, sentenza 9790 del 2020.

La Corte di appello di Roma ha accolto la domanda di Unicredit di pagamento del corrispettivo per violazione del patto di non concorrenza stipulato con un dipendente, avente mansioni di private banker, che, a seguito di dimissioni, aveva prestato attività lavorativa presso un istituto di credito concorrente, operando con la clientela facente parte del portafoglio clienti di Unicredit.

La Corte di Appello ha ritenuto valido il patto avendo lo stesso riguardato la medesima zona (Lazio), la medesima clientela e i medesimi generi di prodotti per i quali era stato stipulato il contratto di lavoro, avendo limitazione temporale ai tre anni successivi alla cessazione del rapporto e prevedendo la corresponsione di un adeguato compenso.

La Suprema Corte, investita della controversia, ha affermato che le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro) ed esterni (avviamento, clientela), trattandosi di un bene che assicura il successo dell’impresa rispetto alle imprese concorrenti.

La normativa sul patto di non concorrenza si preoccupa di tutelare anche il lavoratore subordinato, affinché le clausole di non concorrenza non comprimano eccessivamente le possibilità del lavoratore di poter dirigere la propria attività verso altre occupazioni ritenute più convenienti. Le clausole di non concorrenza, dunque, devono essere subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato, a pena di nullità.

Il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ricorrendone la nullità allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. Le attività economiche da considerare in concorrenza tra loro vanno identificate in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili.

La Corte di Cassazione, dunque, ha giudicato corretta la decisione della Corte di Appello che ha valorizzato adeguatamente la previsione negoziale che aveva delimitato il divieto per la lavoratrice di operare unicamente nel settore del private banking, con i medesimi generi di prodotti e la medesima clientela. Il patto in questione, inoltre, aveva un’efficacia limitata nello spazio e nel tempo, e prevedeva, al tempo stesso, un adeguato compenso.

14 gennaio 2021

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