Il datore di lavoro privato che attribuisce un incarico ad un pubblico dipendente senza la prescritta autorizzazione della Pubblica Amministrazione è sanzionato anche se ha ottenuto una dichiarazione di insussistenza di incompatibilità da parte del lavoratore.
Corte di Cassazione, sentenza 38314 del 2021.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze che aveva confermato l’accoglimento del ricorso di una Cooperativa avverso l'ordinanza ingiunzione con la quale erano stati sanzionati i legali rappresentanti per aver conferito la società incarichi lavorativi a tre dipendenti del Ministero della Difesa in assenza della prescritta autorizzazione.
La Cooperativa aveva sostenuto che l'incarico era stato assegnato a tre infermieri, che erano altresì pubblici dipendenti, in quanto a servizio dell'Accademia Militare di Livorno, nell'inconsapevolezza del loro status, atteso che gli stessi si erano presentati vantando la qualità di liberi professionisti, esibendo il certificato di attribuzione della partita IVA, l'iscrizione all'albo professionale ed alla relativa Cassa di Previdenza. La Corte di Appello aveva rilevato che, pur essendo vietato il cumulo di impieghi ed incarichi dei pubblici dipendenti in assenza di una preventiva autorizzazione da parte della Pubblica Amministrazione, la Legge non indica quale sia lo specifico onere imposto al datore di lavoro privato onde assicurare il controllo sulla qualità del soggetto cui conferisce l'incarico. Per i Giudici dell’Appello, infatti, la norma presuppone la richiesta di preventiva autorizzazione nel caso in cui il soggetto abbia previamente dichiarato al datore di lavoro privato la sua qualità di dipendente pubblico, con la conseguenza che ad essere onerata del controllo sulla violazione attuata dai propri dipendenti era l'Accademia Militare.
Ha proposto ricorso per cassazione l'Agenzia delle Entrate, deducendo che i giudici di appello avrebbero errato affermando che fosse sufficiente per la Cooperativa ricevere le dichiarazioni dei dipendenti, senza che fossero imposti ulteriori controlli a carico del datore di lavoro privato.
La Suprema Corte ha osservato che l'esperimento di incarichi extraistituzionali retribuiti da parte di dipendenti della Pubblica Amministrazione è condizionato al previo rilascio di autorizzazione da parte dell'amministrazione di appartenenza, con un onere di verifica dell'assenza delle condizioni che ne impongono la richiesta posto a carico del datore di lavoro privato, senza che detta verifica possa essere surrogata dalle dichiarazioni dei lavoratori che attestino la superfluità dell'autorizzazione, in quanto inidonee ad elidere la colpevolezza della condotta del datore. Risulta erronea l'affermazione della Corte di Appello che ha ritenuto soddisfatte le condizioni di Legge per escludere la responsabilità della Cooperativa, per il solo fatto che i lavoratori avessero taciuto la loro qualità di dipendenti pubblici, sul presupposto che la norma sanzionatoria non prevedesse uno specifico dovere di controllo a carico del datore di lavoro privato.
In tema di violazioni amministrative, l'errore sulla liceità del fatto giustifica l'esclusione della responsabilità solo quando risulti inevitabile, occorrendo a tal fine un elemento estraneo all'autore dell'infrazione idoneo ad ingenerare in lui la convinzione della stessa liceità, oltre alla condizione che, da parte sua, sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l'errore sia stato incolpevole, non suscettibile, cioè, di essere impedito dall'interessato con l'ordinaria diligenza. La norma, quindi, postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all'agente, sul quale grava, pertanto, l'onere della prova di aver agito senza colpa.
16 febbraio 2022