Il conferimento dell’incarico dirigenziale rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione
Corte di Cassazione, sentenza n. 23062 del 2014
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma, rigettava la domanda con la quale un dirigente di seconda fascia dell'INPDAP, premesso di essere stato illegittimamente pretermesso dal conferimento di funzioni di livello generale stabilite con la delibera, aveva chiesto l'accertamento del proprio diritto all'incarico di dirigente di prima fascia.
Anche la Corte d'Appello rigettava il ricorso. Trattandosi di conferimento di incarico dirigenziale di primo livello, all'interno della area dirigenziale, l'Amministrazione non era tenuta ad attivare alcuna procedura selettiva. La normativa interna prevedeva, inoltre, un'ampia discrezionalità nella valutazione dei parametri indicati e del peso da dare a ciascuno ai fini del giudizio complessivo.
La Corte di Cassazione ha ribadito che l'intera materia degli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni statali è retta dal diritto privato e l'atto di conferimento è espressione del potere di organizzazione che, nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi, è conferito all'amministrazione dal diritto comune. Se gli atti di conferimento e revoca degli incarichi sono ascrivibili al diritto privato, non possono che essere assoggettati ai principi fondamentali dell'autonomia privata e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi e non sono soggetti alle disposizioni della sui procedimenti amministrativi, né ai vizi propri degli atti amministrativi.
Nel merito, poi, secondo la Corte di Cassazione, dall'esame della motivata delibera di nomina e dai curricula dei dirigenti nominati, rilevabili dalle schede acquisite nel corso del giudizio, non si sarebbero neanche riscontrati elementi tali per ritenere un uso distorto della discrezionalità dell'ente, risultando al contrario che i dirigenti nominati presentavano esperienze professionali, e preparazioni culturali, adeguate agli incarichi conferiti.
Non sarebbe stato provato nemmeno che il lavoratore ricorrente fosse stato escluso per l'incompletezza della scheda valutativa compilata dall'ente, perché l'INPDAP aveva esaminato il fascicolo personale dello stesso.
La Corte ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore a pagare all'Ente le spese per oltre 3000 euro.
15/12/2014