Base imponibile contributiva e fiscale nei casi di transazione dei rapporti di lavoro.
Contributo a cura di Raffaele Minutillo. Dottore Commercialista e Revisore Legale.
Il decreto legislativo n. 314/1997 ha cercato di armonizzare la contribuzione previdenziale con la tassazione fiscale sui redditi di lavoro dipendente attraverso l’identità della base imponibile, stabilendo che tutto ciò che è considerato reddito di lavoro dipendente, ai fini TUIR, è soggetto a contribuzione Inps ex art. 12 Legge n. 153/1969, recante modifiche all’art. 27 del DPR n. 797/1955.
In particolare, tale ultima norma stabilisce quanto segue: costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli di cui all'articolo 49, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, maturati nel periodo di riferimento.
Invece, l’art. 49 Tuir dice: 1. Sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro. 2. Costituiscono, altresì, redditi di lavoro dipendente: a) le pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse equiparati; b) le somme di cui all'art. 429, ultimo comma, del codice di procedura civile (comma 3, art. 429 cpc: il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto).
L’art. 12 citato, ai fini contributivi, prevede una serie di eccezioni. In particolare dispone che sono esclusi dalla base imponibile: a) le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto; b) le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l'imponibilità dell'indennità sostitutiva del preavviso.
Invece, ai fini fiscali, la lettera b) dell’art. 49 Tuir espressamente richiama anche le somme disposte dal Giudice con sentenza ex art. 429 cpc e l’art. 51 Tuir, operando delle esclusioni in forma eccessivamente selettiva.
Da un primo confronto tra i due modelli di imponibilità sembrerebbe emergere che mentre il modello contributivo si riferisce a redditi comunque maturati in un determinato periodo, quindi indipendenti dalla materiale erogazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, la norma fiscale si riferisce ai redditi percepiti dal lavoratore nel determinato periodo d’imposta.
In sostanza, a fronte del criterio di competenza seguito dal modello contributivo si passa al criterio di cassa in materia fiscale.
La giurisprudenza ha meglio spiegato i succitati concetti: ai fini contributivi deve essere assoggettato tutto ciò che spetta in base alla legge, al CCNL di categoria anche per effetto del richiamo di cui all’art. 36 Cost., ed ai contratti integrativi e individuali. Il datore di lavoro è unico responsabile nei confronti dell’Inps del pagamento dei contributi calcolati sulle suddette somme spettanti al lavoratore (art. 2115 cc). L’obbligazione contributiva del datore di lavoro trova la fonte direttamente nella legge, per cui è inderogabile, ed indisponibile anche per lo stesso lavoratore subordinato, essa colpisce le somme spettanti indipendentemente dalla effettiva percezione. In pratica, sulle somme spettanti si applica l’aliquota contributiva di settore e ne consegue l’obbligazione pecuniaria dovuta all’Inps da parte del datore di lavoro. Ai sensi dell’art. 2116 cc, se tali somme non vengono versate, i diritti assistenziali e previdenziali spettanti al lavoratore non subiscono alcuna influenza.
Tale meccanismo ha portato taluni a definire triale il rapporto di lavoro, nel senso che esso consta di tre relazioni giuridiche distinte, indipendenti l’una dall’altra, se non per il momento eziologico causativo. A ben vedere, tale complesso rapporto potrebbe essere raffigurato come un triangolo equilatero, i cui lati si toccano solo nel punto di vertice e non sono mai sovrapponibili l’uno all’altro. La base è data dal rapporto di lavoro tra il datore ed il lavoratore. A sinistra trovo la relazione tra il datore e l’Inps ed, a destra, il rapporto tra l’Inps ed il lavoratore. Quindi, alla base trovo l’art. 2094 cc, sul lato sinistro l’art. 2115 e sul lato destro l’art. 2116 cc.
Ai fini fiscali, sono assoggettate a tassazione le somme effettivamente percepite dal lavoratore, per cui di fronte ad eventuali rinunce o transazioni, mentre sul piano tributario rilevano le somme incassate dal dipendente, ai fini contributivi assumono rilevanza le somme comunque spettanti (anche se non riscosse), in base all’applicazione dei contratti collettivi e degli accordi individuali, compreso lo stesso accordo transattivo.
Una delle questioni applicative che desta maggiori preoccupazioni è data dalle rinunce e/o transazioni poste in essere ex art. 2113 cc. A parte la problematica connessa all’invalidità delle stesse, ai fini della imponibilità delle somme, occorre procedere con massima attenzione interpretativa, ex artt. 1362 e segg cc, allo scopo di comprendere quanto effettivamente voluto dalle parti, quali somme in esse comprese sono da considerare soggette a contribuzione e a tassazione Irpef.
E’ opportuno comunque precisare che l’art. 2113, primo comma, nel definire che i summenzionati atti di rinuncia e/o transazione non sono validi, si riferisce a diritti del lavoratore scaturenti da norme inderogabili della legge, CCNL, ecc, quindi a diritti già sorti e consolidati nella sfera giuridica del lavoratore, nonché indisponibili da parte dello stesso lavoratore (creditore, legittimato attivo). Trattasi, a ben vedere, di una “invalidità–annullabilità-inefficacia limitata nel tempo” attesa la sua impugnabilità nel termine decadenziale di 6 mesi. L’istituto, diversamente regolato dall’annullabilità ordinaria nel termine prescrizionale quinquennale di cui all’art. 1442 cc, comma primo, trova con questo punti di continuità e collegamento da approfondire in altra ed idonea sede.
Nonostante tutto appare utile distinguere i tre livelli di diritti coinvolti:
1) Diritti che insorgono come inderogabili ed indisponibili, ma rinunciabili e oggetto di possibili transazioni secondo le indicazioni temporali e procedurali ex art. 2113 cc, quali le varie voci retributive spettanti al lavoratore in base al CCNL, ecc.
2) Diritti che conservano la loro assoluta inderogabilità ed indisponibilità, incidenti direttamente sulla sfera personale del lavoratore, come le ferie, i riposi giornalieri, settimanali, ecc.. Le rinunce e le transazioni aventi per oggetto tali diritti sono nulle, quindi improduttive di effetti giuridici, per illiceità della causa contrattuale. Esse, infatti, riguarderebbero il diritto alla salute, comunque aspetti irrinunciabili dell’essere uomo, prima ancora che lavoratore. Tuttavia, questi diritti potranno tradursi in termini economici, e quindi oggetto di transazione ex art. 2113 cc, solo a fronte dell’impossibilità della fruizione in corso del rapporto, nel qual caso andranno valutati, ai fini del risarcimento del danno, sia nelle componenti del danno emergente (danno alla salute per negazione della fruizione delle ferie e permessi) che in quella del lucro cessante (computato come arricchimento patrimoniale conseguito dal datore di lavoro per il lavoro svolto (servizi prestati) dal dipendente a favore dell’impresa nei giorni in cui aveva diritto al riposo).
3) Diritti che nascono direttamente come disponibili nella sfera patrimoniale del lavoratore, ad es. i trattamenti economici derivanti da pattuizioni individuali (es. “superminimo”) e non dalla contrattazione collettiva; oppure, la somma corrisposta a titolo di accettazione del provvedimento di risoluzione del rapporto, atteso che la continuazione dello stesso rientra nella sfera della disponibilità del lavoratore, o anche l’accettazione del provvedimento di sospensione, quale alternativa al licenziamento, insomma il diritto alla cessazione del rapporto di lavoro e relative indennità. Tali diritti possono essere oggetto di rinunce e transazioni di diritto comune senza il rispetto degli ulteriori vincoli posti dall’art. 2113 cc.
Gli atti posti in essere nelle sedi protette, previste dal quarto comma dell’art. 2113, non subiscono il limite della inefficacia nei primi sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro o dalla data dell’atto se posteriore. Inefficacia che necessariamente deve essere valorizzata previa scelta del lavoratore impugnante.
E’ anche opportuno precisare che, trascorsi i sei mesi, senza impugnazione, l’atto rimane comunque attaccabile secondo le norme di diritto comune in materia di nullità e annullabilità dei contratti, tenuto conto dei relativi termini prescrizionali (cfr artt. 1965 e segg cc, art. 1421 e art. 1442 cc).
Ritornando alla questione centrale del presente appunto, si può affermare che, in linea generale, in presenza di rinunce di importi spettanti al lavoratore in base ai CCNL e/o accordi individuali, rimane confermata, per le ragioni sopra citate, l’imponibilità previdenziale ed esclusa quella fiscale per carenza di reddito percepito.
Sempre, in linea generale, a fronte di transazioni novative (art. 1965, co. 2, cc) ove l’originaria pretesa di tipo retributivo sia novata con altra obbligazione, corrisposta dal datore di lavoro al solo fine di evitare l’alea negativa della soccombenza, la nuova obbligazione, non avendo natura retributiva, ma corrispettivo di un rischio, computato come possibile conseguenza negativa di una eventuale soccombenza, non può essere considerata fonte di contribuzione previdenziale, ma solo reddito fiscalmente imponibile ex art. 6 TUIR, in quanto sostitutivo di altro reddito e comunque riferibile ad un rapporto di lavoro.
In tal caso, se a fronte di una richiesta di differenze retributive, non ancora definitivamente accertata giudizialmente, le parti, novando l’originaria pretesa, si accordano per la definizione della lite con il pagamento di un bonus transattivo a favore del lavoratore, non sarà dovuta alcun importo a titolo di contributi previdenziali in quanto l’atto di negoziazione di un rischio non è ex lege (art. 12 L. n. 153/1969) soggetto a contributi. L’esclusione può trovare la sua fonte, a seconda dei casi, sia nella lettera del primo comma dell’art. 12/153 (o meglio, dell’art. 27 del DPR n. 797/1955) ove parla espressamente di redditi “maturati nel periodo di riferimento”, oppure nella lett. b) del 4 comma ove si escludono le somme la cui erogazione trae origine dalla cessazione stessa del rapporto di rapporto di lavoro, implicitamente riferendosi ad importi maturati fuori dal rapporto di lavoro.
Trattasi, all’evidenza, di analisi puntuale da compiersi in sede di transazione, da parte dei consulenti del datore di lavoro, il quale potrebbe ricevere spiacevoli sorprese da parte dell’Inps, anche su sollecitazione del lavoratore (futuro beneficiario di trattamenti pensionistici); ciò, anche perché le esclusioni dalla base imponibile Inps costituiscono, per espressa previsione di legge, un numerus clausus (veggasi co. 5 art. 12 citato).
All’opposto, il bonus transattivo, sostanziandosi, ai sensi dell’art. 51, comma 1, TUIR, in somma riscossa comunque in relazione ad un rapporto di lavoro, è sempre soggetto ad IRPEF e relative addizionali. E’ appena il caso di far notare che l’espressione “in relazione al rapporto di lavoro” utilizzata dal legislatore tributario è più comprensiva e meno selettiva di quella utilizzata dal legislatore previdenziale, ove si fa riferimento a redditi maturati nel periodo di riferimento.
Facciamo un esempio. Il datore di lavoro, rimasto soccombente in primo grado per l’accertamento di euro 10.000,00, quali differenze retributive maturate negli ultimi due anni di lavoro precedenti il licenziamento, ricorre in appello. In questa fase del giudizio, la lite è risolta con il riconoscimento di un bonus transattivo di euro 8.000,00, avente unica funzione quella di evitare le conseguenze negative di una definitiva soccombenza. In sostanza, il lavoratore rinuncia alle sue pretese retributive ed agli atti del processo, ed il datore si impegna a versare la suddetta somma quale prezzo dell’alea della soccombenza e la Corte di Appello dichiara cessata la materia del contendere. Appare evidente che, in subiecta fattispecie, il prezzo di euro 8.000,00 pagato dal datore al lavoratore, non ha per oggetto retribuzioni, bensì il rischio di una soccombenza processuale, quale obbligazione giuridica assolutamente novativa ed ontologicamente distinta dall’originaria pretesa retributiva, e pertanto non soggetta a contribuzione Inps, non costituendo essa somma maturata nel periodo di riferimento lavorativo, cioè nell’arco temporale costituente la base del triangolo equilatero sopra raffigurato. Anzi, nel caso specifico, appare pacifico concludere che la suddetta somma è maturata oltre il termine finale del rapporto. In tale esempio, il punto che deve essere valorizzato, ai fini della conclusione della non imponibilità contributiva, è dato dalla declaratoria della cessata materia del contendere, avente forza di eliminare anche le sentenze già pronunciate e non ancora passate in giudicato. Ovviamente, l’importo del bonus transattivo sarà soggetto ad imposizione fiscale, per cui in sede transattiva, andrà precisato se trattasi di somme al lordo oppure al netto dell’imposizione fiscale. In assenza di detta precisazione, ed in mancanza di elementi aliunde interpretativi della volontà contrattuale ex artt. 1362 e segg cc, ritengo che vada preferita l’interpretazione di somme intese al lordo dell’Irpef. Da ultimo la Corte di Cassazione ha anche precisato che, nei casi del genere, l’Inps deve procedere in autotutela alla caducazione dell’avviso di addebito, medio tempore notificato e non opposto dal datore di lavoro, attesa la sua natura di atto amministrativo (paragiudiziale), quindi incapace di passare in giudicato anche sulla base di quanto spiegato dalle SS. UU. n. 23397/2016.
In sintesi, i suddetti articoli 49 e 51 TUIR, richiamati dall’art. 12 della legge n. 153/1969, per la determinazione della base imponibile Inps, trovano applicazione ai fini previdenziali con due limitazioni: 1) deve comunque trattarsi di redditi di lavoro maturati nel periodo di riferimento e 2) vanno sempre sottratte le somme, indennità, proventi, ecc., previsti dal comma 4 del medesimo articolo 12.
Diversa sorte spetta alle transazioni “semplici” (art. 1965 comma 1 cc) che non comportano novazione dell’originaria obbligazione, come pretesa dal lavoratore e non definitivamente accertata giudizialmente, ma solo la riduzione delle obbligazioni originariamente richieste alla controparte. In tal caso, occorre avere riguardo all’interpretazione della effettiva volontà delle parti in relazione alla maturazione dei diritti retributivi soggetti ex lege alla contribuzione previdenziale. Cioè, se dal contenuto dell’accordo transattivo emerge che le somme effettivamente maturate sono state parzialmente rinunciate dal lavoratore, anche a fronte di una più spedita riscossione delle stesse, queste vanno assoggettate a contribuzione nella loro integrale formazione (maturazione) e non in quella ridotta in ambito transattivo. Ciò per due ragioni: 1) l’INPS, quale soggetto creditore dell’obbligazione contributiva, non è parte dell’accordo transattivo e 2) il rapporto contributivo (relazione giuridica tra datore di lavoro e Inps, lato sinistro del triangolo) non è per nulla sovrapponibile al rapporto di lavoro, base del triangolo. Ai fini fiscali, l’imponibilità è ridotta alla somma effettivamente corrisposta in quanto la parziale rinuncia costituisce effetto diretto del contratto di transazione e non donazione indiretta ex at. 809 cc (Cassaz. SS. UU. n. 18725/2017), potendo sostanziare, quest’ultima fattispecie, atto di disposizione patrimoniale comunque soggetto ad imposizione. Questa precisazione, in materia tributaria, richiede specifici approfondimenti, qui serve per sottolineare che le rinunce di somme, per non essere pretese a tassazione dal fisco, occorre che siano intimamente collegate e spiegate dal contratto di transazione, che siano effetto stesso del contratto ex 1965 cc, e non rispetto allo stesso autonome e/o indipendenti, altrimenti potendo ricadere in altre forme di tassazione. La preoccupazione, qui manifestata, non deve stupire a fronte di una costante giurisprudenza della V sezione della Corte di cassazione secondo cui la fattispecie civilistica è parte (recessiva) della più complessa (dominante) fattispecie tributaria.
Passiamo ora ad approcciare la problematica concernente l’imponibilità contributiva delle Sentenze del giudice del lavoro.
Come si diceva, agli inizi di questa analisi la base imponibile previdenziale è data da tutto ciò che spetta al lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro, in applicazione del CCNL di categoria, contratti individuali, ecc. Nel caso di intervenuta sentenza passata in giudicato che definisce anche gli importi spettanti al lavoratore in funzione solutoria del rapporto controverso, tali somme saranno assoggettate a contribuzione anche se dovessero essere in parte transate/rinunciate dal lavoratore, ovviamente con il rispetto di tutte le precauzioni sopra cennate ai fini della ridotta imposizione fiscale. Esse costituiscono il parametro retributivo cui applicare le aliquote contributive. Il giudice nel fissare la spettanza retributiva, con espressa quantificazione dei relativi importi, dà applicazione della legge al caso concreto, facendo leva sui parametri previsti dal CCNL di categoria.
Ciò vale anche per le sentenze di riconoscimento di importi pregressi nei casi di ricostruzioni di carriera, cioè di importi da spalmare, ai fini contributivi, sui periodi di rispettiva maturazione.
In merito a questo aspetto, va tenuto conto che è possibile assoggettare a contribuzione INPS, solo gli importi maturati del termine quinquennale della prescrizione, ai cui fini va dato riguardo alla circostanza che l’Inps rimane soggetto estraneo alla controversia, per cui se il lavoratore non si attiva tempestivamente, direttamente nei confronti dell’Ente previdenziale, con apposita denuncia ai danni del datore di lavoro inadempiente, potranno produrre effetti nei confronti dell’Istituto previdenziale, solo i crediti per contributi maturati nel quinquennio precedente l’atto di interruzione prescrizionale. Cioè, il datore di lavoro potrà versare all’Inps, e l’Inps potrà agire contro il datore di lavoro, solo per i crediti contributivi sorti in tale arco periodale, e non per quelli maturati prima dei cinque anni dell’atto interruttivo della prescrizione, in considerazione il carattere di “doppia indisponibilità della prescrizione” delle obbligazioni contributivo-previdenziali.
E’ noto che la prescrizione di diritto comune è semplicemente preclusiva dell’azione (non immediatamente estintiva) del creditore nei confronti del debitore, dovendo quest’ultimo eccepirla nei termini di legge al fine di goderne gli effetti, così sostanziandosi (sul piano processuale) in una eccezione processuale propria, pena la decadenza del diritto.
All’opposto, in materia di contributi previdenziali, essa è definita come un fenomeno direttamente estintivo dei diritti previdenziali nei confronti dell’INPS. Infatti, decorso il termine prescrizionale, da una parte, il creditore (INPS) non può accettare il pagamento che provenga dal (debitore) datore di lavoro, e quest’ultimo non può rinunciare alla prescrizione medesima, effettuando il versamento di contributi prescritti.
Sul punto la legge attribuisce determinati poteri al lavoratore subordinato, “terzo beneficiario” dei trattamenti assistenziali-previdenziali: da una parte può procedere alla interruzione della prescrizione con apposita denuncia indirizzata all’Istituto, contro il datore di lavoro inadempiente, secondo i dettami dell’art. 3, comma 9, della legge n. 335/1995, dall’altra, l’art. 2116, comma 2, prevede che, nei casi in cui il lavoratore non può godere dei benefici previdenziali per causa del datore di lavoro, quest’ultimo è responsabile del risarcimento del danno, ad es. consistente nei minori ratei pensionistici riscossi mensilmente a carico dell’Istituto previdenziale. Sul punto devesi far notare che l’azione per l’accertamento del danno ex art. 2116, comma 2, computato nei ratei pensionistici non riscuotibili nei confronti dell’Inps, consegue all’insorgenza del (minor) diritto a pensione, per cui ex art. 2935 cc il dies a quo per il calcolo del termine prescrizionale potrebbe verificarsi anche in un tempo molto lontano dall’intervenuto rapporto di lavoro giudizialmente accertato o comunque riconosciuto dal datore di lavoro.
Ma tale diritto, calcolato nella prestazione dovuta al danno per lucro cessante, pari ai ratei pensionistici non riscuotibili nei confronti dell’Ente previdenziale per mancata o irregolare contribuzione, può essere esercitato nei confronti del datore di lavoro o dei suoi aventi causa anche nei casi il rapporto di lavoro non fu accertato? La risposta data dalla giurisprudenza è positiva, infatti ciò che si prescrive è il diritto, cioè la prestazione attesa dal creditore nei confronti del debitore. Qui la prestazione, quindi il diritto, è il rateo pensionistico, ove il rapporto di lavoro è il fatto, oggetto della prova ex art. 2697 cc, su cui esso si fonda. Il decorso del termine quinquennale dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, quale dies a quo per l’esercizio dei diritti patrimoniali scaturenti dal rapporto medesimo, comporta la definitiva perdita dei diritti retributivi ex art. 2948 punti 4) e 5), ma non la perdita dei ratei pensionistici che, invece, sono sottoposti alla prescrizione con il dies a quo decorrente dalla data di insorgenza del diritto a pensione.
Continuando sul trattamento previdenziale delle sentenze del giudice del lavoro, passate in giudicato, che costituiscono o accertano con efficacia retroattiva un rapporto di lavoro senza provvedere al quantum retributivo, appare pacifico che l’Inps potrà pretendere i contributi previdenziali nei confronti del datore di lavoro sulla base dell’applicazione del CCNL di settore, considerate le qualifiche, mansioni, ed orari di lavoro accertati in sentenza, il tutto in base ai parametri sanciti dall’art. 36 della Costituzione.
Infine si ritiene opportuno fare una precisazione sul concetto di risarcimento del danno recato dalle sentenze del Giudice del lavoro ai fini della determinazione della base imponibile fiscale. La terminologia usata può condurre a confusioni applicative ove si dovesse ritenere che ogni risarcimento sia escluso dall’imposizione perché non costituisce reddito tassabile. All’opposto solo i danni c.d. emergenti, ad es. atti a ristorare perdite non patrimoniali ex art. 2059 cc subite dal lavoratore, quali danni biologici, esistenziali, morali, da demansionamento, ecc. sono esclusi dalla tassazione. Invece, per i danni accertati per il ristoro di redditi da lavoro non erogati al lavoratore durante il rapporto di lavoro, o comunque relativi al rapporto di lavoro, trova applicazione l’art. 6 TUIR, comma 2: i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.
11 gennaio 2018