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Attività extra lavorativa di consulente e condotta truffaldina: licenziamento del dipendente pubblico.

Corte di Cassazione, sentenza 11948 del 2019.

La Corte d'Appello di Bari respingeva il reclamo proposto da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato dall'Agenzia delle Dogane.

Al lavoratore era stato contestato di aver svolto, in maniera abituate, attività extra lavorativa di consulente del lavoro, mai autorizzata, e di avere posto in essere una condotta truffaldina nei confronti dell'Inps, prodigandosi per far ottenere a numerosi braccianti agricoli indebite prestazioni economiche nonché vantaggi contributivi ed assicurativi per giornate mai lavorate.

I procedimenti disciplinari erano stati sospesi e riavviati a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale che aveva dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dei reati.

La Suprema Corte ha ritenuto infondata la doglianza del lavoratore secondo cui solo una sentenza penale di condanna avrebbe legittimato la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso.

Il ccnl per il personale del comparto delle Agenzie Fiscali prevede solo per alcune fattispecie tipizzate il recesso viene ricollegato al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, mentre in ipotesi rileva la gravità della condotta. In tali ultimi casi, l'irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva è consentita, a prescindere dalla rilevanza penale dell'azione, in relazione a fatti o atti anche dolosi che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.

La Corte di Cassazione ha valutato infondato il ricorso anche nella parte in cui assume che, essendo mancato l'accertamento con sentenza passata in giudicato della responsabilità penale, l'amministrazione, prima, ed il giudice, poi, avrebbero dovuto procedere ad un'autonoma attività di indagine, senza poter utilizzare gli atti assunti nel procedimento penale al di fuori del dibattimento.

Nulla impedisce, all'opposto, alla Pubblica Amministrazione di avvalersi a fini disciplinari degli atti del procedimento penale. L'amministrazione datrice di lavoro è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente.

Quanto, poi, alla rilevanza della sentenza penale nel successivo procedimento disciplinare opera il principio generale secondo cui il giudicato non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità operato nel giudizio penale. Il giudicato di assoluzione e, a maggior ragione, la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato non determinano l'automatica archiviazione del procedimento disciplinare perché, fermo restando che il fatto non può essere ricostruito in termini difformi, non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare.

Nel caso affrontato, il materiale probatorio acquisito in sede civile e nel corso del procedimento penale ha consentito di provare sia lo svolgimento dell'attività di consulente non autorizzata, sia la condotta truffaldina, finalizzata a far ottenere ai propri assistiti erogazioni di trattamenti assistenziali e previdenziali non dovuti.

04 luglio 2019

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